Erwin Van Krey (1959) si fa protagonista di un racconto intimo, sussurrato, che vive nella dimensione delle sue opere senza l’esigenza di sfondare i confini del quotidiano. Un’atemporalità che permea di significati sottesi ognuna delle sue immagini, situazioni rubate a fotografie d’archivio. L’artista olandese diviene testimone di una realtà dove il tempo è elemento fondante e straniante insieme: il passato riemerge nei suoi dipinti, scevro di qualsiasi fattore causale.
Non si rintracciano più descrizioni, congetture, definizioni: l’immagine è lavata di qualsiasi appartenenza, per giungere a una purezza formale che la rende universale. L’artista elegge situazioni ignote, apparentemente insignificanti, cogliendo il momento ed estraendolo dal proprio contesto.
I confini della fotografia si perdono e il singolo istante diviene insignificante, al punto da subire una trasformazione che permette l’allontanamento dalla memoria personale per circoscriverne una condivisa, diventando esperienza che chiunque ha vissuto. Ecco, allora, che un bambino con una palla in mano diviene qualsiasi bambino; che il volto di una donna diviene qualsiasi donna; che un paesaggio rappresenta qualsiasi paesaggio, con naturalità disarmante e ascetica. Il ricordo abbraccia, così, la sfera del singolo attraverso l’uso di immagini che codificano segni propri del collettivo: una ricerca espressiva che fa dell’indagine la vera cifra stilistica di Van Krey.
Risultato è una sensazione densa, palpabile, una malinconia che fugge ai confini intangibili dell’opera, per giungere all’anima stessa dell’osservatore. Si prova, osservando le opere di Van Krey, una malinconia apparente, una tristezza riconducibile a esperienze mai vissute davvero, testimonianza di come esista un passato comune, degno di essere condiviso e ricordato – sebbene, forse, mai agito – da ognuno.
Spesso lavori su piccolo formato. Tale scelta è dovuta al fatto che contribuisce alla dimensione romantica dell’opera stessa? Puoi parlarci del tuo approccio all’opera d’arte?
Ho spesso copiato i vecchi maestri. Da studente, mi sono formato come pittore moderno: ho imparato molto alla scuola d’arte, ma ho successivamente padroneggiato le tecniche che uso oggi. Penso che i formati più piccoli richiedano un diverso tipo di attenzione, avvicinandomi idealmente allo spettatore.
Inoltre, dato che ho una grande produzione ma uno spazio di archiviazione limitato per le grandi tele, i formati più piccoli mantengono le cose gestibili.
I tuoi soggetti sono spesso volti “velati”, paesaggi irriconoscibili o personaggi di spalle. Che ruolo ha la figura per un artista figurativo come te?
Alla scuola d’arte mi sono formato nell’espressionismo astratto. Grandi tele quadrate, senza alcuna chiara indicazione di quale lato fosse rivolto verso l’alto o verso il basso. Pensavo che questo diventasse troppo vago, troppo sciolto, e non ho mai avuto la sensazione di aver finito di lavorarci sopra.
Sia i tuoi ritratti che i paesaggi sono eterei, impossibili da colloca- re nel tempo e nello spazio. È davvero così?
La ricerca di un tempo perduto è un’idea, non la descrizione di un periodo specifico. Uso i cliché e altri elementi che vivono nell’inconscio collettivo.
Le tue immagini provengono da esempi fotografici. Prendevi le foto da un album di famiglia (esempi degli anni 50 e 60), ora come selezioni le immagini?
A volte ci si emoziona davanti a un volto raffaellesco, o a una composizione alla Vermeer. Io non cerco, trovo. Voglio sempre vedere qualcosa di nuovo. Come persone, possiamo solo immaginare qualcosa sulla base di ciò che abbiamo già visto in precedenza. Non possiamo immaginare nulla che vada al di fuori della nostra percezione. Permettendo associazioni incontrollate, ricevo nuove immagini e possibilità che altrimenti non entrerebbero mai nella mia coscienza/consapevolezza. La capacità del cervello di percepire collegamenti tra cose che razionalmente non sono collegate. Il “carattere onirico” dei dipinti finali si basa su una accurata e lucida pianificazione.
Le tue opere sono cariche di una forte componente emotiva. Hanno senza dubbio un filo diretto col passato. Come vive un artista come te questo confine, tra passato e presente? Quanto pesa il passato personale in un’opera e quanto pesa nelle opere di Erwin Van Krey?
In un modo o nell’altro c’è sempre una qualità emotiva e personale, ma non c’è realtà nei miei dipinti. Le fotografie attivano il recupero di momenti dimenticati, ma disprezzo la nostalgia.
Il tempo è un soggetto importante del tuo lavoro? Forse, dietro alla singola figura del dipinto, può essere che sia il tempo (inteso non solo come “il trascorrere del tempo”, ma anche come elemento fisico nello spazio) il vero protagonista delle tue opere?
Cerco di interrompere e alterare il senso del tempo nei miei dipinti. Dipingo per rallentare il tempo. La fotografia è un rapimento immediato dell’oggetto dal mondo a una realtà altra, a un altro tempo. Nonostante le circostanze reali in cui è stata scattata la foto, quei momenti sono rimodellati in una finzione in cui ti perdi in un oceano di ulteriori domande.
Le tue opere sembrano immagini rubate al tempo. Non ci capisce se i soggetti siano appena stati ritratti o se fuggano da qualche memoria rubata. I tuoi lavori richiamano a una sfera privata. Cosa credi che smuovano le tue opere nell’animo delle persone?
Sentimenti di malinconia, una fine che non sarà mai raggiunta davvero. Un momento di stasi. In questo vuoto, lo spettatore può insinuare i propri ricordi e riflessioni, dando luogo a un momento passeggero e fugace nel tempo che è generalmente definito “vita”.
I tuoi lavori hanno un formalismo sobrio e velato e ricordano un’infanzia lontana. Però hanno anche un tono drammatico e melanconico. Quanto di questi due aspetti riguardano Erwin come individuo?
Mi sento strettamente legato a de Chirico, un pittore della memoria. Eppure, i suoi quadri non sono immagini mentali o fantasie dei suoi ricordi reali. Non è l’intenzione o il progetto dell’opera, ma il quadro stesso a diventare realtà. Questo lascia lo spettatore con la sua malinconia; cosa che non accade al pittore.
Nella tua biografia scrivi: “One should take the viewer seriously in offering him not too many clues, so he himself can accomplish a feeling of coherence of… I don’t know what”. Come completerebbe la frase Erwin, oggi?
Con il rischio che un’immagine non sia mai completamente fedele alla realtà, chiunque può riempire il vuoto per se stesso e darvi un senso.
Citando Flaubert: “The artist must be in his work as God is in nature”. Come significa per Erwin essere dentro i suoi lavori?
L’artista deve essere nel suo lavoro come Dio è nel creato, invisibile e onnipotente; lo si deve sentire ovunque ma mai vederlo. Cancellare i legami che collegano l’opera d’arte al suo creatore.
In definitiva, qual è il tuo rapporto con il sistema dell’arte? E le gallerie e i sistemi di mercato?
Dopo l’ultima crisi finanziaria, la maggior parte delle mie gallerie ha chiuso i battenti. Da allora sono diventato più attivo online. Ho ottenuto un bel po’ di seguaci che acquistano spesso i miei (nuovi) lavori. Forse dovrei puntare a vendere tutti i miei lavori online. Studi e lavori preliminari che vendo spesso tramite aste online. Mi piace l’aspetto democratico di questi siti, sono estremamente accessibili. C’è sempre il rischio di vendere il proprio lavoro a un prezzo troppo basso, ma così sia.
Hai fatto molte mostre (come la Van Gogh Gale- rie, Zundert, nel 2018, ‘Investi- gations into the uncanny ’, ‘s-Her- togenbosch in collaborazione con S.M.A.K., Ghent nel 2016, Galerie 4×4, Vianen nel 2012, Caixa Forum, Gerona nel 2011, EXPO Brussels nel 2007, De Warande, Eindhoven nel 2005 e molte altre). C’è una mostra con cui senti un le- game speciale e quali in futuro?
La mia ultima mostra a Eindhoven è stata una mostra collettiva ben organizzata, in cui le opere d’arte erano impegnate in un dialogo tra loro. La mia mostra a Berli- no, a marzo 2020, è stata rinviata a causa delle attuali circostanze del Coronavirus. Speriamo che la mostra sia inaugurata a settembre 2020.
Pietro Bazzoli